venerdì 24 ottobre 2014

LITTLE SECRET capitolo 1

LITTLE SECRET 

Sara aveva un segreto inconfessabile che si portava dietro da diversi anni ormai, cioè da quando aveva scoperto che suo padre era un vampiro. Da quel giorno il pensiero che anche lei un giorno avrebbe sviluppato simili poteri, la tormentava togliendole il sonno. Com’era possibile che suo padre, l’uomo che l’aveva cullata nelle notti insonni, che l’aveva consolata quando era ferita, che l’abbracciava con amore ogni volta che lei era triste in realtà potesse essere una creatura dell’oscurità.



Quella sera, a causa di un compito in classe non riuscito, aveva deciso di restare sveglia a studiare per recuperare il brutto voto. Non era mai andata molto d’accordo con la matematica, materia nella quale aveva molte lacune. Ma non voleva essere da meno di Jessica, la classica “prima donna” del liceo che riusciva bene in tutto e, soprattutto, aveva un forte ascendente su Allen, il ragazzo del quale si era presa una cotta. Le ore passavano lente e pesanti, il sonno era ormai insostenibile e le palpebre sempre più pesanti. Si stiracchio sullo schienale della sedia, sentii le vertebre scricchiolare sotto la pressione muscolare e ne ebbe sollievo. “Forse potrei fare anche una pausa” si disse passandosi una mano dietro il collo e prendendo a massaggiare. Si alzò dalla sedia, la stanza era piccola, poco arredata, giusto lo stretto indispensabile, la porta dell’armadio a muro che lei usava come guardaroba era socchiusa, creandole quel senso d’inquietudine che l’ora tarda suscitava a chi come lei era facilmente suggestionabile. Prese a fissare l’oscurità che s’intravedeva dalla porta socchiusa, quasi ne fosse attratta, si aspettava che prima o poi qualche strano essere sarebbe uscito da li per aggredirla come succedeva nei più classici filmetti di serie B. Sorrise a quel pensiero, “Sara, Sara” mormorò fra se e se, “a volte sei così paranoica, che mi fai proprio ridere” sbuffò soffocando una risatina. Si avviò verso l’armadio, lo aprì lentamente facendo scricchiolare l’anta. “Ecco, vedi?” disse fra se e se, “nessun troll, nessun mostro, niente di niente. Sei proprio paranoica!” rise scuotendo il capo. Sistemò con un gesto deciso alcuni indumenti che ostruivano l’anta e richiuse l’armadio. Si stiracchiò nuovamente e prese a passeggiare nella stanza per sgranchirsi le gambe. Erano ore che stava ricurva sui libri ed aveva il corpo intorpidito. Sfiorò i peluche ordinatamente esposti sullo scaffale, li passò in rassegna uno ad uno, poi prese il suo preferito di quand’era una bambina, un orsetto bruno col fiocco giallo e lo strinse a se per alcuni minuti.


Nella stanza il silenzio regnava sovrano, solo il ticchettio delle lancette dell’orologio a muro, scandivano lo scorrere del tempo rimbombando sordamente nel silenzio della notte. Si sedette sul letto pensierosa, le gambe incrociate e l’orsetto stretto al petto, vi ci posò sopra il mento ed iniziò ad accarezzarlo con le labbra, un gesto quasi meccanico, visto che il suo sguardo non era rivolto al pupazzo di pezza ma alla porta della sua stanza. La luce fioca che penetrava dalla soglia mostrava l’ombra di qualcuno o qualcosa che, nervosamente, continuava a passeggiare al di fuori di quella camera. Sembrava combattuta sul da farsi, se entrare o meno. Lei rimase in attesa per alcuni secondi, poi spazientita, si alzò di scatto, spalancò la porta con estrema decisione e sbruffò: “stai facendo un solco qui fuori, che c’è?” sbottò nervosa.

“Allora eri ancora sveglia?” mormorò suo padre.

“Certo, mi sto preparando per il compito in classe di domani. Ma avevi bisogno di qualcosa? Perché stavi qui fuori?” chiese. L’uomo sorrise, “e tu studi con quello in braccio?” mormorò cercando di trattenersi dal ridere. Sara arrossì visibilmente, nascose in fretta l’orsetto dietro le spalle ed abbassò lo sguardo.

“Ti ho fatto paura? Per quello avevi mister Booh con te?” chiese il padre con voce calda, il modo in cui la guardava era così dolce e delicato, da commuovere. Provava un’immensa adorazione per la dolce figliola e non si faceva problemi a dimostrarlo.

“Ecco, veramente…” mormorò lei imbarazzata, d’istinto prese a scompigliarsi la folta chioma corvina, “beh, si, un po’ si” ammise giocando con una ciocca. “E’ che è colpa tua, papà! Non puoi passeggiare a quel modo dietro la porta della gente nel cuore della notte, capisci?” iniziò a balbettare agitando mister Booh con forza.

“Piano, piano” rise lui divertito, “o farai del male a mister Booh” concluse accarezzando il capo del pupazzo. Lei sorrise scuotendo la testa e gli si gettò tra le braccia con un sospiro. “Annunciati la prossima volta, bussa, fai qualcosa, ma non farmi più spaventare così, ok?” mormorò guardandolo dal basso verso l’alto.

“Va bene, piccola. Ti chiedo scusa” sorrise il padre stringendola a se. Rimasero abbracciati per una manciata di secondi, lui le baciò il capo accarezzandola dolcemente. Sua figlia Sara era ormai l’unico parente che gli era rimasto in vita, Beatrice, sua moglie, era morta diversi anni prima ed oltre a Sara non avevano avuto altri figli. Vedeva nella sua piccola donna, tutto il suo mondo, un mondo fragile come il vetro, delicato come un fiore di campo, un piccolo mondo sul quale lui avrebbe dovuto vegliare e proteggere con tutte le sue forze.

“Papà?” mormorò lei. “Non è che mi dispiace stare abbracciati, ma avrei da studiare” ironizzò. L’uomo allentò d’istinto la presa, le passò una mano tra i capelli scompigliandoli e si avviò giù per le scale che portavano alla cucina.

Lo  seguì con lo sguardo scendere le scale, il cuore in gola. Il bene che voleva a suo padre e la paura di quello che lui era diventato, si scontravano nel suo cuore in una lotta all’ultimo sangue. Non sapeva come affrontare l’argomento con lui eppure, in cuor suo, era certa che il padre sapesse che lei aveva scoperto il suo segreto, ma aspettava paziente le sue domande senza forzarla. Rimase in silenzio sulla soglia della stanza, sentì la porta d’ingresso socchiudersi lentamente. La battuta di caccia era iniziata. Corse nella stanza, s’infilò veloce le scarpe da tennis ed uscì veloce dietro di lui.

Corse a perdifiato nelle strade deserte della città, sapeva che suo padre era uscito e di certo era per procurarsi del cibo, cibo da vampiri. Non aveva mai assistito all’omicidio di un essere umano da parte di suo padre, ma la prima volta che scoprì che era una creatura della notte, era stato proprio in una tiepida serata autunnale, esattamente identica a questa. All’epoca dei fatti aveva appena 12 anni. Sua madre era morta da poco e lei continuava a fare incubi che la svegliavano nelle ore più disperate. Quella notte, dopo l’ennesimo incubo, si era alzata a bere un bicchiere di latte caldo per calmarsi, sentì la porta d’ingresso chiudersi e vide suo padre uscire dal lato del giardino con aria assente e passo infermo. Pareva molto sofferente. Avrebbe voluto chiamarlo, ma decise di seguirlo, così uscì subito dopo di lui ancora in pantofole ed iniziò a pedinarlo silenziosamente. Si chiedeva dove stesse andando a quell’ora tarda della notte e soprattutto come poteva uscire e lasciarla da sola a casa senza neanche avvisarla. Probabilmente qualsiasi ragazzina di quell’età avrebbe avuto paura ad addentrarsi nelle stradine deserte nel cuore della notte, ma dopo la morte prematura della madre aveva sviluppato un forte senso di apatia nei confronti del pericolo, l’unico pensiero che animava le sue intenzioni quella notte era quello di ritrovare il suo amato papà e di riportarlo a casa. Aveva bisogno di lui più che mai in quel momento così doloroso. I minuti trascorrevano lenti e silenziosi, non sapeva di preciso quant’era passato da quando era uscita di casa, ma iniziava ad avvertire un po’ di stanchezza. L’adrenalina dell’incubo che l’aveva svegliata, la stava lentamente abbandonando ed il sonno, pesante e spietato, si stava abbattendo sulle stanche palpebre. Si guardò intorno stranita, era ad un bivio, da qualsiasi parte guardasse, vedeva solo pali delle luce, muri di cinta e marciapiedi sporchi, ma nessuna traccia di suo padre. Sembrava essersi volatilizzano non appena girato l’angolo. Rimase in silenzio, lo sguardo perso a fissare il vuoto tra le due vie. La mente annebbiata dal sonno e dalla stanchezza.

“Papà” mormorò fra se e se. Le facevano male i piedi, era troppo stanca per capire dove fosse, ma nonostante sentisse il panico salirle da in fondo allo stomaco, il suo cuore rimase stranamente calmo. Le lacrime presero ad uscire, senza il minimo sussulto, mentre il respiro si faceva sempre più corto ed irregolare. “Dove sei?” sussurrò guardandosi intorno. Notò una terza via nascosta tra le due, l’istinto le disse che era la strada giusta. Sorrise e s’avviò a passi svelti fiduciosa di trovare il suo papà. Svoltò veloce l’angolo e si ritrovò dinnanzi ad un cancello che fungeva da ingresso al giardino. Si avvicinò lenta alle sbarre di metallo semi arrugginito, socchiuse gli occhi per cercare di scrutare meglio l’oscurità che le si parava dinnanzi, ma non si riusciva a vedere granché. Provò a scrollare il pesante cancello, ma era ben chiuso e non si muoveva di un centimetro. Sospirò posando la fronte sul freddo metallo. Era stanca al punto che si sarebbe potuta tranquillamente addormentare li. Si rese conto che seguire suo padre in piena notte non era stata certo una buona idea, si morse il labbro per impedire alle lacrime di uscire. Doveva tornare a casa, non aveva altra scelta. Lanciò un’ultima occhiata al di là del cancello, la luna ora era ben visibile ed aveva illuminato il giardino con il suo bianco pallore, ma quello che le si presentò dinnanzi agli occhi era uno spettacolo che avrebbe fatto volentieri a meno di vedere. Vi erano due figure al di là del cancello, una sdraiata per terra, l’altra ricurva su quest’ultima mentre tutt’intorno brillava del liquido color rubino. Sara soffocò un urlo mordendosi con così tanto forza il labbro da farlo sanguinare, non credeva di capire bene cosa stava vedendo, ma si rese subito conto che era qualcosa che non avrebbe dovuto vedere, qualcosa di malvagio e pericoloso. Spaventata prese a correre a perdifiato inciampando più volte sui proprio piedi. Non osava voltarsi, sapeva che se l’avesse fatto, se si fosse soffermata ancora una volta a vedere quella scena, ne sarebbe rimasta calamitata ed allora sarebbe stata facile preda di quella persona che tanto le ricordava il suo papà. Si bloccò ansimante. Lo sguardo colmo di terrore mentre con la mente cercava di ricordare la sagoma che aveva visto, quella sagoma umana di spalle intenta a fare qualcosa a quell’altra distesa in terra, qualcosa che non osava neanche immaginare, qualcosa che la scuoteva fin dal profondo come un sesto senso sopito, quella persona, quella che aveva visto di spalle, era suo padre. Non aveva dubbi. Si asciugò le lacrime con la manica del pigiama e corse dritta a casa.  Da quel momento i suoi ricordi erano confusi, si ricordava vagamente dell’accaduto e l’indomani mattina, recatasi ai giardino in questione, non aveva trovato nessuna traccia che faceva pensare ad un’aggressione. Questo suo cruccio, l’aveva accompagnata negli anni a seguire, quel sapere, ma non averne certezza, quella strana sensazione d’impotenza dinnanzi all’accaduto. Così, quando sentiva suo padre uscire nel cuore della notte, aveva preso l’abitudine di seguirlo, ma puntualmente o per una cosa o per un’altra, lo perdeva sempre di vista. Sospirò al ricordo così confuso di quella notte, a volte era così vago che si chiedeva come avesse fatto a convincersi che quell’uomo fosse davvero suo padre e del perché fosse così certa si trattasse di un vampiro. Ma c’era come una voce dentro di lei, che le diceva che era così, che non si stava sbagliando.

 “L’ho perso di nuovo!” sbraitò pestando il piede per terra. “Ma come fa sempre a sparire? Eppure usciamo con uno scarto di un paio di minuti” mormorò fra se e se. Camminò lungo le strade deserte facendo attenzione ad ogni minimo movimento sospetto. Rispetto alla prima volta che era corsa dietro a suo padre, quando era poco più che una bambina, aveva imparato che le strade di sera potevano non essere sicure, soprattutto se si trattava di una ragazza sola ed indifesa. Conosceva bene il quartiere, in quanto ci era nata e sapeva dov’era meglio addentrarsi e dove era meglio lasciar perdere. L’aria stranamente mite, le regalava un piacevole tepore, nonostante fosse agitata al pensiero di quello che avrebbe potuto vedere, riusciva a mantenere il controllo delle sue emozioni. Si guardò intorno con circospezione, su entrambi i lati della strada, c’erano cumoli di immondizia lasciata dalle persone che abitavano nella zone, erano state lasciati li per la raccolta differenziata del giorno seguente. “Dall’odore, si direbbero rifiuti organici” mormorò disgustata e portandosi una mano sulla bocca. Più avanti s’intravedevano le luci al neon della strada principale, in quella direzione il rombo del motore delle macchine era più forte ed intenso. Ferma davanti ad una casa in costruzione, si chiese cosa fosse più sensato fare, la curiosità di perlustrare l’edificio abbandonato era tanta come la perplessità di evitare a tutti i costi d’infilarsi in un guaio più grosso di lei. Era indecisa sul da farsi. Rimuginava passeggiando nervosamente dinnanzi a quello che doveva essere l’ingresso dell’edificio. Non aveva la certezza che suo padre si trovasse proprio li, ma se si fosse imbattuta in qualche senza tetto ubriaco e violento? Uno scricchiolio, un rumore inaspettato attirò la sua attenzione, aveva la certezza assoluta che all’interno dell’edificio ci fosse qualcuno. Trattenne il respiro  tendendo le orecchie, il fiato corto ed il cuore in gola per la tensione le impedivano ogni movimento. Era questo il gusto della paura? Si chiese stranamente stupita, non era certo la prima volta che provava simili emozioni, ma il pensiero di ciò che i suoi occhi avrebbero visto, il sol pensare a ciò che avrebbe potuto scoprire, la turbava fin nel profondo. Deglutì la saliva, fece un respiro profondo ed inspirò bene con la bocca, non era il caso di restare ancora ferma li, il tempo passava e lei non aveva certo tutta la notte. Spinse con entrambe le mani la pesante porta che fungeva d’ingresso che si aprì con un enorme cigolìo metallico. L’interno dell’edificio non era illuminato e ben presto la sua sagoma fu inghiottita dalle tenebre più fitte. Ansimava per la tensione, gli occhi sgranati nel tentativo di mettere a fuoco qualche immagine nell’enorme distesa di buio che s’espandeva dinnanzi a lei e che la stava avvolgendo con il suo gelido manto. Con le mani protratte in avanti, camminava a piccoli passetti. Il buio era così intenso che non riusciva neanche più a percepire la sua stessa esistenza, aveva la sensazione di non avere più un corpo suo, ma che anzi, era diventata una sorta di entità spirituale che lentamente fluttuava nell’immenso vuoto che la circondava.

Trovò le scale ed iniziò a salirle lentamente con passo instabile. Le assi di legno scricchiolavano sotto il suo peso, i muri erano così freddi da sembrare bagnati.

Man mano che avanzava, gli occhi iniziarono ad abituarsi al buio tanto da permetterle di distinguere gli oggetti e le porte che ornavano il lungo corridoio sul quale era arrivata non appena finito di salire le scale. Il respiro era lento e ben calcolato, cercava di mantenersi il più calma possibile, si rendeva perfettamente conto che stava violando una proprietà privata, ma doveva vedere con i suoi occhi ciò che suo padre faceva tutte le notti quando, silenzioso, sgattaiolava fuori di casa senza dare un minimo di spiegazione.

Si fermò dinnanzi alla prima porta e provò lentamente ad aprirla, ma essa non si mosse di un centimetro, era come se fosse bloccata dall’altra parte, provò a metterci più forza, ma la situazione non cambiò. Avrebbe voluto prenderla a calci e buttarla giù come si vede nei film d’azione al cinema, ma poi come avrebbe ripagato il danno? Sorrise. In un momento di tensione come quello, lei si preoccupava di una cosa così sciocca e futile come il denaro. Uno scricchiolio alle sue spalle, qualcuno stava salendo le scale. Spaventata  spintonò con più forza la porta che stavolta cedette e le permise di oltrepassare la soglia, chiuse velocemente la porta dietro di se, vide un armadio a muro e vi si nascose al suo interno. Faceva fatica a respirare per la troppa tensione, si rannicchiò in un angolo del mobile, cercando di coprirsi la bocca con entrambe le mani per evitare di farsi scappare qualche gridolino involontario.

La porta si aprì lentamente, lei sobbalzò ma rimase ferma nel suo rifugio. Era li perché voleva sapere la verità, ma ora che era così vicina, iniziò a rendersi conto che aveva commesso un errore madornale, i vampiri non sono buoni. I vampiri mangiano le persone come lei per fame. E se suo padre non la riconoscesse e l’attaccasse? Se quel qualcosa che ora si aggirava all’interno della stanza era una creatura assetata del suo sangue di umana? Non aveva armi con se, non aveva nulla…solo tanta, troppa paura e la consapevolezza che era davvero in un mare di guai.


Nessun commento:

Posta un commento